I “tre martiri” e le difficili condizioni di Melle nel periodo resistenziale
Intervento di Livio Berardo del 26 aprile a ricordo dei Tre martiri di Melle, pubblicato su Gazzetta di Saluzzo.

Durante i venti mesi della resistenza la valle Varaita ha subito due grandi rastrellamenti tedeschi, uno fra il 25 marzo 1944 e l’inizio di aprile, l’altro nell’agosto dello stesso anno. Il primo, condotto da un battaglione della SS-Polizei, fu la risposta al lungo sciopero della cartiera Burgo, favorito dall’incursione dei partigiani, poi dall’interruzione della corrente elettrica proveniente dalla centrale di Venasca. Dopo lo scontro di Valcurta, a Melle la retata soprese tredici partigiani disarmati, 10 fra astigiani e torinesi con 3 “nostrani” di Rossana e Costigliole. Per decretarne la morte furono decisive le dichiarazioni del segretario e del podestà. Da queste due figure (e dall’addetto allo stato civile nei comuni un po’ più grossi) dipendevano infatti i trasferimenti di residenza, il rilascio delle carte di identità e delle tessere annonarie, tutto ciò che faceva la differenza fra cittadini obbedienti alle autorità e clandestini, cioè renitenti o sospetti partigiani.
Con Bellino Melle era uno dei paesi più poveri della vallata. Grazie all’accorpamento forzato di Valmala gli abitanti erano saliti a 2.200 (oggi sono meno di 200), ma gli oneri per la manutenzione delle strade e lo sgombero neve erano cresciuti in modo esorbitante. Melle non disponeva di una farmacia o di uno sportello bancario. Non aveva stabilimenti industriali come Piasco, cave come Rossana e Brossasco oppure centrali elettriche come Pontechianale, Casteldelfino, Sampeyre, Brossasco e Venasca. Persino Frassino, chiuso l’impianto dell’Alto Po dopo l’attivazione dei nuovi impianti, aveva conservato un’officina di smistamento. Le centrali idroelettriche, non ancora automatizzate, richiedevano allora più di 30 dipendenti ciascuna, lavoratori specializzati con (relativamente) buoni stipendi e un indotto notevole nell’edilizia, nella fabbricazione di mobili e sul commercio alimentare.
Dei comuni con meno risorse e dunque poco ospitali Bellino si poteva evitare, Melle era un punto di passaggio ineludibile: la strada passava ancora in pieno paese. I valloni laterali con i fitti boschi erano un rifugio per sbandati e banditi. Ma la sfortuna maggiore di Melle fu di avere un segretario comunale fascista, Silvio Ricchiardi. Da studente universitario era stato volontario in Abissinia e aveva partecipato agli eccidi di cui si macchiarono le camicie nere. Il suo archivio fotografico, oggi all’Istituto storico della resistenza, offre documenti raccapriccianti. L’11 maggio fu fucilato dai partigiani. Così in paese molti giovani si sentirono liberi di unirsi alla resistenza, tanto più che a partire da Venasca in su, come in valle Maira e valle Stura a monte di Dronero e di Demonte, si crearono in quell’estate le “repubbliche partigiane”, vere zone libere e di autogoverno, benché provvisorio.
Il quadro militare cambia improvvisamente il 15 agosto: truppe americane, canadesi e gaulliste sbarcano fra Hyères e Saint Tropez. I tedeschi tentano di portare soccorso ai loro presidi attraverso il colle della Maddalena, ma la brigata Rosselli ne rallenta il passaggio. Arrivano quando lo sbarco è già avvenuto e i paracadutisti hanno preso alle spalle le guarnigioni. L’obiettivo della Wehrmacht è ora controllare i valichi alpini delle Graie e delle Marittime per impedire attacchi dal versante francese. Iniziano i rastrellamenti nelle vallate: per efferatezza si distingue il reggimento della Luftwaffen-Sicherung del ten. col. Fritz-Herbert Dierich. Il 24 agosto 1944 è a Melle e cattura due garibaldini Giovanni Fino e Antonio Marchetti più lo studente di medicina Guglielmo Giusiano, un GL. I primi due erano tornati per salutare i familiari, il terzo per recapitare medicinali a un ferito in combattimento. Saranno impiccati vicino alle case dei genitori, costretti prima a fornire le corde, poi a veder penzolare i cadaveri dalla ringhiera del sagrato e dai lampioni. Anche se non era più operante Ricchiardi, i tre giovani erano stati traditi da una delazione. Questo spiega perché sul suolo di Melle (con Valmala) siano stati così numerosi i morti: 56 contro gli 11 di Brossasco o i 20 di Venasca. Di quei 56 morti ventisette sono partigiani, diciannove fascisti, dieci civili. Si tratta di tre reduci di Russia deceduti per malattie contratte nella ritirata, cinque cittadini fucilati dai tedeschi perché avevano aiutato la resistenza e due dai partigiani, perché delatori.
A partire da ottobre i rastrellamenti in valle saranno condotti dagli alpini della Monterosa, una divisione addestrata in Germania. Sotto la guida del tenente Adami il battaglione Bassano dimostrerà tutta la sua spietata abilità nella controguerriglia: travestimenti, torture, agguati come quello di Valmala del marzo 1945. Il 2 maggio Adami, nome di battaglia Pavàn, viene condannato a morte dal tribunale del CLN di Saluzzo, presieduto dall’avv. Emilio Villa, futuro sindaco democristiano della città. La punizione si estende agli ufficiali che sono con lui o ancora in valle. Gli ultimi decessi registrati a Melle appartengono a questa vicenda.
Per converso il ten. Cavalli, che diresse l’agguato al santuario di Valmala, riuscì a sottrarsi a ogni condanna. Il suo superiore, il ten. col. Armando Farinacci, fratello del quadrumviro della “marcia su Roma”, transiterà direttamente dalla Rsi all’esercito dell’Italia democratica. Vivrà a Dronero, dove aveva comandato il presidio fascista, fino al 1975 con una buona pensione, dopo aver ricevuto nella caserma «Cesare Battisti» la croce di guerra per fatti anteriori all’8 settembre, vale a dire per la repressione della resistenza in Jugoslavia.
Livio Berardo